È domenica, e sono sprofondata in una poltrona intenta a leggere due libri: uno, della cui autrice mi sono innamorata, e che è “La cosa nella foresta” di Antonia Susan Blyatt; l’altro, le prime pagine di “La famiglia Aubrey” di Rebecca West. Mi alzo e vengo a scrivere qui, al mio pc, perché leggo questa frase: Mamma sollevò la teiera bruna e riempì di nuovo la propria tazza, proprio nelle prime pagine di questo secondo libro, che ho appena iniziato. Ho voglia di mettere per scritto la sensazione che provo quando incontro nei libri tè, bollitori, gatti, coperte patchwork, vestiti indiani o sentieri nel bosco, gocce di rugiada e vecchie che vivono nella casa al limitare dell’abitato. Mi ricordo la sensazione di benessere che mi dava, quando ero ragazzina, leggere la descrizione del piccolo appartamento di Polly, protagonista di “Una ragazza all’antica” di Louisa May Alcott. Libro che ho perduto, chissà dove, nei miei innumerevoli traslochi – comunque, Polly va a vivere in una piccola mansarda e ricordo benissimo che lì lei ha un bollitore, e leggere e rileggere le sue avventure, insieme a quelle delle mie altre eroine (prima tra tutte, Anne Shirley) mi donava una grandissima quiete.
Sono sempre stata una bambina calma. Troppo sensibile, dicevano. All’età di 3 anni già sapevo leggere: complice il mio adorato nonno, andato in pensione l’anno della mia nascita, che mi faceva giocare con cubi con sopra riportate le lettere dell’alfabeto. Chissà, se è stato per quello o perché avevo già così voglia di leggere, sebbene fossi così piccola.
Leggere allora era il mio rifugio: passavo ore e ore immersa nei romanzi, non avrei saputo immaginare la mia vita senza i libri. Poi sono cresciuta, e attraversando la mia adolescenza ho dato spazio alla me ribelle, anticonvenzionale, curiosa e spigliata, dimenticandomi (o, forse, vergognandomi) della ragazzina timida, introversa e sognatrice che ero.
Ma era una fase, oppure ero ancora così?
Ieri, parlando con il mio compagno (lui è gioiosamente introverso) mi sono resa conto di quanto spesso, in passato, mi sia forzata alle situazioni molto sociali, per paura di non essere amata o inclusa o di perdermi qualcosa di importante. E quindi, giorno dopo giorno, ho trascurato quella ragazzina desiderosa di leggere, immaginare, immergersi in una solitudine proficua e nutriente.
Questo significa che io non sono una persona socievole? No. Non credo. Amo stare con le persone a me care, gli amici e le amiche, condividere, chiacchierare, collaborare. Ma tutto questo ha bisogno di essere compensato e riportato in equilibrio da quei momenti di quiete e ascolto e lentezza, fatti di gatti, bollitori, bosco, letture fantastiche, studio.
Eppure, quanto è difficile ascoltarmi. Forse accade anche a te, mi piacerebbe saperlo: quanto spesso siamo tirate fuori da noi stesse, lontane dalla nostra natura, per accordarci a quella altrui? Quanto spesso ci dimentichiamo dei nostri spazi di quiete, di pace, di ricarica? Forse mi accade perché sono una Persona Altamente Sensibile (e per scoprire che cosa significhi ti rimando al blog di Nora, che parla di questo argomento in modo delicato e preciso). Forse mi accade perché è davvero difficile porsi al centro di noi stesse, e ascoltare davvero quelli che sono i nostri bisogni. Spesso, quello che desideriamo ci stupisce.
A volte può essere un bollitore smaltato, una coperta con i quadrati colorati fatta all’uncinetto, due gatti che fanno le fusa. E un cuore gentile che ti permette questa quiete.